Raccontare di Todra, ancora

Giusto un anno fa un aereo decollava da Milano per portarci verso la nostra avventura. Mi sembra il giorno giusto per ricordare il nostro viaggio con il piccolo racconto che ci è valso una menzione di merito alla 1^ edizione del Concorso Letterario Internazionale di Narrativa “Asiniùs” (un po’ di pubblicità: http://www.asinius.it).

Sabato 14 settembre c’è stata la premiazione, un incontro semplice e toccante come lo sono gli asini, in una località che è stata una scoperta, Oleggio in provincia di Novara, dove ho sentito molte parole belle.  Grazie tra tutti ad Alessandra Giordano, che con il suo asino Pablo “sta”.

Sottile la zampa, di velluto le orecchie

A Fabienne e Mathilde, magiche allevatrici di asini

Il primo asino non si scorda mai. A dire il vero non so se ce ne saranno altri, di asini. Nella mia vita, intendo. Ma questo è stato davvero impagabile. Perché un compagno d’avventura è un compagno d’avventura, a prescindere dal numero di gambe di cui la natura l’ha dotato. Per sei settimane siamo stati i Tre moschettieri. Tre moschettieri senza bisogno di un d’Artagnan. No, non è vero. C’era anche d’Artagnan, solo che non era mai lo stesso, cambiavano l’aspetto, la lingua, la lunghezza del tragitto condiviso. Perché sì, la mia storia – la nostra storia – con un asino, con quell’asino, per di più francese, è la storia di un cammino. Su “quel” Cammino. Di un infinità di passi ritmati dalla cadenza regolare dei suoi zoccoli che battevano sul terreno, un rumore ora forte, ora attutito.  A contarli tutti, si arriverebbe oltre il milione e mezzo.

Chi siamo noi, ha poca importanza, qui. Basti sapere che siamo due signore non proprio giovanissime ma non per questo noiosamente posate. Quali fossero i motivi che ci avevano spinto fin là, fanno parte di un’altra vicenda. A riempire questa storia basta l’asino, perché quel bell’esemplare di asino dei Pirenei era una vera star. E lo sapeva benissimo.

Ci conoscemmo un lunedì di settembre, un incontro che aveva avuto una lunga gestazione. E infine T. era lì, davanti a noi. Zampa sottile, pelo scuro, ma muso e ventre chiaro, occhio vivace, orecchie foderate di velluto morbido. E ovviamente buona muscolatura, perché a lui avremmo affidato il nostro bagaglio. Un bagaglio che aveva già fatto molta strada, su rotaia, gomma ed ali, per arrivare fin là e che era già stato perso e ritrovato.

Una giornata per conoscerci, imparare i gesti minimi da sapere e poi via, verso il vero punto di partenza, una foto ricordo, la promessa di raccontare come sarebbero andate le cose per questo insolito terzetto, circoscrivere man mano che avanzavamo la data in cui avrebbe cessato di essere un moschettiere per tornare ad essere un asino tra gli asini nella fattoria francese da cui era partito. Qualche pugno di mais nelle saccocce, perché a loro modo anche i quadrupedi sono golosi.

Avremmo scoperto che amava le mele, e questa era una scoperta facile. Ma per le castagne aveva una vera passione, che ci avrebbe costretto a ripetute fermate. Ma questo sarebbe stato poi, dopo giorni e giorni.

La prima giornata fu breve, la mia amica e l’asino ad aspettarmi mentre correvo per gli antichi viottoli ad espletare il rituale che avrebbe fatto di noi tre pellegrini. E già l’attenzione era tutta per lui.

E poi arrivò il giorno, quel giorno. Prima l’ansia perché nella notte T. aveva strappato il moschettone per andare a curiosare tra gli alberi e non riuscivamo a trovalo – a volte gli asini sanno essere dei veri somari – e poi finalmente via, lungo il percorso che saliva costantemente, ora dolce, ora più ripido.

Davanti a noi si sgranava il lungo rosario degli altri pellegrini, le loro sagome si stagliavano sul pendio. Noi a tirare e spingere il nostro asinello che si piantava all’inizio di ogni nuova salita. Non avevamo capito allora che stava solo studiando: il percorso ma anche e soprattutto noi. L’avremmo imparato a nostre spese, perché riuscì ad inquadrarci molto rapidamente, e sapeva senz’ombra di dubbio che tra le due ero io quella che poteva raggirare, anche fisicamente, per andare a fare ciò che più amava: mangiare.

Quella giornata T. rimase a lungo con me, mentre la mia amica ci seguiva o più spesso ci precedeva, mi sentivo orgogliosa di condurre quasi con disinvoltura il nostro compagno di viaggio. Ci sono foto che provano che stavo dal lato sbagliato, ma tant’è, io ero felice già così. Intanto guardavo le nuvole che correvano veloci nel cielo, come immensi, morbidi fiocchi di cotone,  i cavalli dalle criniere dorate in alto, lontani, le pecore che sembravano anch’esse fiocchi di cotone, ma piccoli, sparpagliati sulle montagne. Per terra un’ombra che ci precedeva, il sole proiettava sul sentiero la sagoma falciforme del mio cappello e quella lunga delle orecchie del mio insolito compagno. La felicità a volte è così semplice.

Avvicinandoci al culmine il paesaggio si  fece pietroso e poi iniziò la discesa. L’asino, che in salita non voleva avanzare, ora sembrava non volersi arrestare mai, e quattro zampe erano inevitabilmente più veloci di due. Così mi ritrovai più volte per terra, perché no, non volevo mollare la longhina, terrorizzata che il ciuchino scegliesse la libertà. Che ne sapevo io che avrebbe fatto solo qualche passo e si sarebbe fermato ad aspettarmi? Magari con quell’aria che avrebbe assunto tante altre volte, come se pensasse: “Che imbranata la mia umana”. Poi i bei boschi, la Francia ormai dietro le spalle, noi tre di nuovo insieme nella Navarra spagnola. Sentieri più dolci ma punteggiati da cancelli troppo stretti per far passare T. con le bisacce addosso. E smonta e rimonta e via. La vedevamo in lontananza, la sagoma carica di storia dell’abbazia, eppure sembrava non avvicinarsi mai.

Il sole stava ormai calando quando la strada dell’abbazia fu infine sotto i nostri piedi. Per il nostro compagno di viaggio un campo recintato, per noi letti a castello in camerata. Avremmo scoperto ben presto che esigenze così semplici, come un albero a cui legare il ciuchino per la notte e un fazzoletto d’erba per nutrirlo potevano diventare la più bizzarra delle richieste, ma quella sera no, tutto andò come doveva. Lasciato il nostro asinello a dormire, con quel gesto così aggraziato, che ci sarebbe diventato così familiare nei giorni a venire, appena uno zoccoletto sollevato a raccontare il corpo che si rilassava, ci concedemmo una cena semplice e poi io andai alla messa in abbazia. E alla fine l’invito ad avvicinarci, noi tutti arrivati quel giorno fin là, e nella chiesa calò il buio, poi una luce salì ad avviluppare un’immagine. La vergine di Roncisvalle – e noi là sotto,  mille provenienze, mille impulsi ma una sola meta, ad ascoltare in silenzio la secolare benedizione che accompagna quelli che vanno a Compostella.

Altri giorni sarebbero  seguiti, ancora un’infinità di passi, carichi di fatica, di voglia di arrivare e timore di non farcela. In una babele di lingue avremmo sentito ripetere da voci meravigliate, allegre, incuriosite, talvolta scandalizzate: asino, burro, âne, Esel, donkey, osioł, e tante foto di T. avrebbero percorso il mondo e il nostro compagno di viaggio sarebbe entrato tra i ricordi speciali dei viaggi altrui.

Ma tra le tante, quelle dieci ore sarebbe rimaste uniche, preziose, in cui due donne e un asino avevano stretto un patto e insieme avrebbero mantenuto una promessa.

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